Sapete, scrivere una recensione, parola impegnativa, non è una cosa così banale come può sembrare.
Lo spunto, l’analisi, gli elogi e le critiche, i propri punti di vista e le opinioni altrui. Le angolazioni, le citazioni e i plagi. Quante cose da tenere a mente.
Scrivere poi di Doctor Who, una serie con 50 anni di vita sulle spalle, che ha attraversato trasversalmente le generazioni, da programma fantastico-divulgativo della beneamata BBC a soggetto di culto mondiale è ancora più difficile, considerando anche che il Buon Dottore, sconosciuto ai più nel nostro paese, a meno di non essere sopra gli anta, è divenuto in poco tempo, grazie a Rai 4, fenomeno di sfrenata passione per giovani teenager.
Ma arriviamo al punto, lo speciale di Natale 2013. Quello dell’addio annunciato di Matt Smith e dell’arrivo di Peter Capaldi. Quello scritto dal guru Moffat, colui che non sbaglia un colpo e che ha fatto diventare pop e cult una serie forse destinata a morire di vecchiaia come i suoi fan della prima ora. L’uomo che, come tutti i geni della sceneggiatura, è bravissimo a far finire tutto in gloria, come JJ Abrams insegna.
Beh, fino al cinquanovesimo minuto di “The Time of the Doctor” avrei confermato riga per riga quello che ho scritto, anche in passato, sul Dottore del duemila. Moffat si diverte a prenderci in giro alla perfezione, tira con astuzia tutte le fila del ciclo dell’undicesimo Dottore, divertendosi, ancora una volta, a frantumare quelli che un tempo erano punti fissi per piegarli alle esigenze di una serie che, spinta da un successo forse inimmaginabile nell’ormai lontano 2005, quando ritornò dal limbo dove era stata relegata dalla mancanza di interesse e spettatori, non può, anzi, non deve finire.
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